Orazione funebre di Vittorio Venturelli
Issue Date
October 1, 1612
Chronology
XVII sec.
Authors
Content
1612, post 1 ottobre (a
Commento
Vittorio Venturelli (1584-post 1641) pronuncia l'orazione funebre per le esequie Barocci nella chiesa di San Francesco (segnalata da Olsen 1962, pp. 20-21, nota 2; pubblicata per intero in Baroni 2015, da cui si riprende, con minime varianti, la trascrizione dal manoscritto della Biblioteca Universitaria di Urbino, Archivio Storico del Comune, ms. Urbino 73, eseguita dal dottor Federico Marcucci). Il testo di Venturelli non solo dà conto del radicamento profondissimo del pittore nella città natale e nella corte, ma anche segnala alcuni dipinti del maestro non rubricati in precedenti fonti a stampa: le Stimmate di san Francesco già nella chiesa dei Cappuccini a Urbino e oggi nella Galleria Nazionale delle Marche; la Crocifissione tuttora sull’altare dell’Oratorio della Morte; l’Istituzione dell’eucarestia nella cappella Aldobrandini in Santa Maria sopra Minerva. Venturelli rievoca inoltre il Perdono, la Vocazione di Sant’Andrea spedita all’Escorial e la Fuga di Enea da Troia mandata a Rodolfo II. Questa orazione fu tra gli strumenti adoperati da Giovan Pietro Bellori per intessere la Vita di Barocci (vedi 1672). [Barbara Agosti, Anna Maria Ambrosini]
Trascrizione
«Orazione funebre per celebrare nella chiesa de Reverendi Padri Conventuali di Urbino il giorno delle solenni esequie all'insigne pittore Federico Barocci urbinate da Vittorio Venturelli intimo ed affettuoso suo concittadino composta e recitata
Questo veramente illustre, e non meno antico che memorabil uso, che appresso gli Ateniesi era legge di celebrare con publica orazione in pieno teatro i meriti e le virtù degli uomini, che per opere egregie hanno morendo appresso i posteri lasciata immortale e gloriosa memoria loro siccome è degno d'infinita lode, così parimente con giustissima ragione è stato dai più guerrieri popoli e dalle più conosciute nazioni del mondo seguito ed abbracciato. Posciaché mentre gli onorati fatti d'ingegni eminentissimi si commendano, nell'istesso tempo si danno alla virtù sempre venerabile e sempre ammirata quasi nobilissimi tributi li meritati premi; e ne mortali s'imprime un ardente desiderio d'imitarli.
Onde con generosa emulazione come leggiamo di Temistocle e di Milziade, d'Ercole e di Teseo, procurando i viventi di premere le stesse laudabili vestigia degli antenati siccome si mostrano seguaci ed immitatori celebri d'uomini eccellenti, così anche la sete della gloria quasi per successione ereditaria nelle seguenti età si viene e perpetuando e propagando, e la virtù produttrice della fama con nuovi parti d'opere e d'azioni maravigliose rende se stessa e più chiara e più cara: e sebbene tal ora il merito e le doti degl'umani intelletti pervengono a grado di tanta eminenza, che si possono anzi ammirare con l'animo e col silenzio, che celebrare con la voce e con le parole (come ora avviene a me, che devo ragionare del grandissimo Federico Baroccio nostro concittadino in guisa a tutte le lodi superiore, che ne mortali ha piutosto lasciato desiderio che speranza di poterlo immitare); non per questo è così nobile usanza messa in abbandono, anzi quanto più considerabili erano le virtù di colui che l'aveva a lodare, tanto più volontieri in così nobile impresa l'animo e l'eloquenza impiegavano; e se le parole degli oratori non adequavano il merito, tanto prendevano allegrezza gli ascoltanti chiaramente conoscendo che nel miglior modo possibile e coi maggiori premi che si trovassero era onorata la memoria di quelli che gloriosamente avevano cangiata la vita in morte, e che non si potessero più lodare, e che non se le potessero più degni onori attribuire, era somma lode, era inesplicabile onore dell'estinto.
Non è dunque meraviglia, o signori, se l'antichissima e nobilissima città d'Urbino vera immitatrice delle virtù degli antichi si compiace con funebri pompe e con publica orazione di riconoscere la riguardevole eccellenza di questo suo chiarissimo e dilettissimo figlio, e di consegnarla con veri onori alla posterità. Poiché sebbene questa affettuosa dimostrazione è poco, non ritrovandosi in terra premio che alla vera virtù sia pari, nondimeno goderà l'anima sua felice di ricevere dall'amata patria i più cari segni, i più veri frutti d'amore e d'ossequio, che si possino dare. E quantunque l'elezione del dicitore non sia conforme al soggetto degnissimo dei più famosi oratori, tuttavolta io supplico quelle ossa venerabili, e voi tutti, che prendiate in grado questo mio pietoso officio, il che tanto più dovete concedermi; poiché i degni parti del Baroccio sono per se medesimi così chiari, che per essere lodati e conosciuti, di molta eloquenza non v'è duopo: oltrecché non potrà cadervi nel pensiero che la verità sia da me coi più riposti secreti dell'arte o nascosa o rabellita; o che la forza del dire renda maggiori di quello che si crede gl'alti suoi meriti; anzi, sapendo tutti ch'io sono per dispiegarvi semplicemente il vero, e che se nel ragionamento apparirà difetto, anzi sarà nel dir poco che molto, e nel diminuire piutosto che nell'accrescere le sue laudi, salirà nell'istesso tempo la gloria del Baroccio in più venerazione, e sia più cara, avegnache la verità tanto più si gradisca, quanto più è pura, ed io così facendo acquisterò tanta fede a miei detti, che saranno superflui con voi nobilissimi signori quelli retorici artifici, de quali tutti si vagliono per far benevoli, attenti e docili gli ascoltanti; che a dirne il vero l'istesso Baroccio da se medesimo ancorché morto, così necessario officio perfettamente adempie. Onde s'io volessi nel discorso incominciato d'alcune cose all'intento utilissime ammonirvi, fora inutile; poiché trattandosi di lui senz'altro vengo eccellentemente a conseguire quanto desidero, se bramassi rendervi alla mia causa amici e benevoli, tentarei cosa vana; conciossiacosache il presente soggetto è il più amabile e il più glorioso ch'altrui s'offerisse giammai, se fossi vago di produrre attenzione in voi, consumarei le ore senza pro, merceche l'l mio tema n'è tanto degno per se stesso, quanto altro da qualsivoglia dicitore per l'addietro o trattato o proposto; perché vorrei sapere come sia possibile ragionare del Baroccio, uomo così glorioso, e che gl'uditori non siano attenti? Avere per soggetto dell'orazione uno spirito illustre eguale agli antichi, superiore ai presenti, e maggiore di quelli che verranno, e non tenervi fisso il pensiero? Vedete, o signori, quante sono le opere di Federico, tante sono le meraviglie che procurano quest'attenzione: quante pitture, quanti ritratti, quante linee egli trasse giammai, tante sono le cagioni che vi fanno attenti, in modo tale che quand'anche voleste col pensiero andar vagando, le cose dette vi sforzeranno con obbligata e non errante intenzione ad ascoltarmi. E perché non vi faceste a credere che in questo venerabile antichissimo tempio fra così chiara ed illustre corona d'ascoltanti, in così profondo ed onorato silenzio io volessi anzi l'aura popolare ed il commune applauso apprestarmi, che le promesse attendervi, di grazia cominciamo, e conoscerete che le cose da me proposte sono tali che danno conforto a suoi parenti, accendono in noi desiderio d'imitazione, rendono la memoria del Baroccio amabile ed ammirabile, fanno me degno di fede, ed a sé rapiscono l'attenzione di tanti signori, e di tutti che m'ascoltano.
Una maravigliosa ed infinita Provvidenza, con la quale dolcemente ed ordinatamente le cose di quaggiù si reggono, prescrive e vuole che non tutte le perfezioni in un sol uomo si ritrovino, né che tutti gl'ornamenti desiderabili di natura, di fortuna e d'arte in un soggetto si congiunghino; poiché se questo avvenisse, si toglierebbe il commercio umano, ed il possessore di tanti beni come eccedente le condizioni della nostra fragilità sarebbe anzi un Dio terreno che uomo mortale; quindi la provvida natura, acciò le umane genti sgambievolmente si potessero sovvenire ed acciò questi alle necessità di quelli porgesse aiuto, dispensò con tanta eccellenza li doni suoi, che il considerarlo è cosa degna d'infinita meraviglia, poiché vediamo altri ricchi, ma sordidi; altri nobili, ma poveri; molti abbondanti di figli, ma privi di virtù; molti vivere illustri per le scienze, ma da mille infortuni essere acerbamente afflitti e combattuti. Laonde pur troppo è chiaro che tutti i viventi mancano di molte cose; per l'acquisto delle quali trattando insieme, e vicendevolmente accomodandosi si nutrisce l'amore, si conservano i regni, e con rimotissimi popoli si contraggono amicizie e confederazioni; e se pure tal ora avviene che ne terreni ingegni alcuni di così chiare doti risplendino, questi sopra gl'altri eminenti sono dal comune consenso come per natura superiore riveriti ed ammirati. Poiché tale è la condizione della virtù, che rende sempre degni d'onore e di ammirazione gli ornati di quella. Perloche dobbiamo giudicare felicissimo il Baroccio, nel quale tante grazie di natura, di fortuna e d'arte, che sparse e divise ed imperfette negl'altri si mirano, stabilirono con ferma ed eccellentissima unione una sede veramente indivisibile; avegnache la patria nobilissima, la famiglia onorata ed antica, l'eccellenza in quella, gl'onori conseguiti, le opere fatte, l'erudizione, e tant'altre virtù s'accoppiarono in lui, che lo resero ammirabile e celeberrimo.
Nacque Federico nella patria nostra comune d'Urbino città per se stessa d'immemorabile antichità, della quale fanno lodevole menzione i Ciceroni, i Varroni, i Taciti, i Plinii ed altri autori di grandissimo grido, che di tempo in tempo ha prodotto uomini di molta eccellenza e nelle lettere e nelle armi e nelle arti, li quali come suoi legittimi e grati figli resero presso le nazioni esterne più celebre e più venerabile il nome suo. Quindi ella sendo per centinaia già d'anni paternamente e con somma felicità retta e governata dall'antichissima e nobilissima famiglia di Monte Feltro e della Rovere, madri fecondissime de maggiori principi e capitani d'Europa, ha potuto mediante così degna protezzione conseguire tanti onori e dignità, che senz'altro ella non cede a qualsivoglia, benché di grandezza e di ricchezza maggiore. Come l'essere metropoli d'uno stato così nobile, dal quale Roma già due volte riconobbe la sua salute, il titolo antico di ducato ottenuto dal gran pontefice Eugenio IV, l'archiepiscopale dignità, lo Studio publico, un così autorevole Collegio, nel quale gl'Appi, li Publicoli, i Catoni abbondano; l'ordinaria residenza d'un tanto assoluto ed eminente Consiglio atto a reggere uno ed infiniti mondi, quando infiniti mondi come voleva Democrito si ritrovassero; la magnificenza inesplicabile della corte ed altre meraviglie, ch'io sotto silenzio trascorro, confermano con certa ed irrevocabile testimonianza i miei detti. Ma sebbene per tanti onori ella è già chiara e celebre, tuttavolta abbiamo anche bene spesso a rammentarci ch'è stata grandissima la fama e la gloria sua di avere per mezzo de propri cittadini illustrate, anzi restituite al mondo alcune arti negli antichi tempi di somma riputazione, come sono le matematiche discipline, l'architettura, gl'orologi, li mecanici stromenti, ed in particolare la pittura, la quale per tacere ora delle altre fu nella pristina grandezza ricondotta dal grandissimo Raffaello Sanzio da Urbino, ch'emulo di tutta l'antichità con l'eccellenza del sapere, con la felicità dell'ingegno poté fare eterno il suo nome, innalzare alla patria un trofeo degnissimo di vero onore, e dalle profonde tenebre dell'oblivione, nella quale era professione così celebrata miseramente sepolta, sospingerla in chiarissima luce di gloria. Non parvi dunque, o signori, illustre e desiderabile orbamento questi del Baroccio, essendo non in semplice villa, non in breve ed angusto castello, non in luogo ignobile ed incognito, ma nella fedelissima città d'Urbino venuto al mondo? E se quel vetustissimo filosofo rendeva somme grazie al cielo di prendere origine non da barbari, ma da Greci, e dalla degna città d'Atene produttrice ed altrice avventurosa negli andati tempi d'uomini chiarissimi, crediate pure che anche il Baroccio in sommo pregio avesse d'essere urbinate, onde trassero l'aura vitale e la luce ove fiorirono i più celebri pittori del mondo ov’egli s'elesse di vivere e di morire. Ma non vorrei che il desiderio e la consolazione, della quale internamente abbondo in ragionare della mia patria, mi divertissero dall'intento principale; ch'in vero io farei torto a lei se così brevemente ne parlassi, ed a Federico, che offerendomi così ampia e così degna occasione di discorso, io nondimeno quasi povero di soggetto procurassi da cagioni esterne, come sogliono gl'oratori in materia sterile, d'ampliare il tema; tuttavolta mi scuseranno, poiché sono così congiunte le laudi di Federico con quelle della patria, e quelle d'Urbino col Baroccio, che difficilmente si possono commemorar queste, se non si spiegano in parte quelle; siccome altresì non si possono lodare gl'effetti ed i figli, se non si celebrano i genitori e le cagioni: anzi, siccome le tenere piante in fertile terreno inserte crescono verdeggianti e felici, così gli uomini dalla natura d'egregie inclinazioni dotati, se fanno l'età loro in luoghi, ove la virtù sia conosciuta ed apprezzata, è malagevole il dire quanto sopra gl'altri s'avvanzino, e come dalle sofferte fatiche abbondantissimi frutti di fama e di gloria raccolghino. Non è dunque meraviglia se 'l Baroccio, al quale conferì la natura tanti e sì rari doni, che quasi pareva ch'ella si fosse dimenticata d'averlo fatto mortale, menando la sua vita in Urbino fecondissimo clima, e sotto fortunata astersione collocato per la produzione de nobili ingegni, e felicissimo nutritorre d'anime gloriose, abbia corrisposto alla espettazione universale, nella quale appresso tutti egli viveva, ed offerto e consecrato alla immortalità con mille opere eroiche, la memoria inestinguibile del nome suo.
Ma siccome la fertilità del terreno non è per se medesima bastante a produrre ottimi frutti, se dalla diligenza del cultore non è sostenuta ed aiutata, così parimenti non è possibile che l'uomo conduchi a perfezione le naturali e buone qualità, né che le faccia da se medesimo virtù compite, se dall'esempio de maggiori, se da maestri, se dall'ottima educazione non è prima instrutto ed incitato, poiché privo di questi sostegni, quasi corpo valido ma senza luce, erra bene spesso, ed incespa. Quindi per eterna ed incognita provvidenza, acciò nel Baroccio nulla si desiderasse, egli nacque d'onorata ed antica famiglia, che di tempo in tempo diede al mondo ed alla patria uomini chiari ed eminenti, come per tralasciare i più vecchi tra gl'altri è stato l'avo suo Marc'Antonio, che nelle leggi consumatissimo esercitò con molta gloria in principali carichi tutti quasi gl'officii, che per ben reggere i popoli sogliono i nostri serenissimi principi conferire a persone d'approvata letteratura e di conosciuta bontà; dal quale nacquero due figli delle virtù paterne industriosi eredi, che nel breve giro di pochi anni donarono alla luce de mortali con numero pari per ciascheduno quattro uomini, che senza contradizione furono i maggiori, che mai nascessero nelle arti loro; li nomi de quali per non defraudarli della debita laude è bene che a voi nobilissimi ascoltanti brevemente rammemori; e sono Giovanni Battista, Giovanni Maria, Simone e Federico, al quale questo nostro discorso rimira. Li primi due diedero opera a quelli matematici e filosofici stromenti da noi chiamati orologi, ed altri simili, dai quali dividendosi in 24 parti eguali il giro diurno del primo mobile, che gl'altri cieli ed anche la sfera del fuoco e parte dell'aere incessantemente rapisce, conosciamo l'ore, i punti e tutti i progressi di quel moto, e vediamo i segni del zodiaco, e sotto quale i pianeti ed il sole si riparino; onde poscia per lo vivere umano da questa giocondissima cognizione riportano gl'uomini infinite utilità, nella qual arte quanto si profondassero Giovanni Battista e Giovanni Maria, lascerò piutosto che la fama da essi degnamente acquistata e per ogni parte diffusa lo dichiari, ch'affaticandomi con le parole non conseguire l'intento; poiché solo quel maraviglioso orologio opera di Giovanni Maria basta a renderli immortali, del quale i sommi pontefici onorarono le proprie abitazioni, in cui con maraviglioso artificio si vedono descritte le celesti immagini, si scorgono immitati con tanta eccellenza i moti supremi delle sfere eterne, che veramente pare le bellezze del cielo, i movimenti di quei corpi immortali, anzi i cieli medesimi essere trasferiti e rinchiusi entro le brevi ed anguste mete che di quella sfera meravigliosa di vetro fatta dall'eccellentissimo Archimede lasciò scritto in un elegantissimo epigramma Claudiano, che poi la sua bellezza nella materna lingua da me trasferito ha questo senso:
Mirando Giove in picciol vetro i cieli
Agli altri Dei rivolto arrise, e disse:
Ecco fin dove de mortali arriva
La cura e la potenza. in un cristallo
Le mie fatiche per ischerno accolte
De dèi la legge, e gl'ordini dei poli
De le cose fa fede: ecco per arte
Del gran Siracusan locate altrove
L'inchiuso spirto a varie stelle aspira,
Coi certi moti la grand'opra adempie.
Trascorre il finto sole i segni e l'anno
E la scolpita luna al nuovo mese
Ritorna errando, e 'l proprio giro eterna:
Così laudata industria un nuovo mondo
Informa e volge; e l'intelletto umano
Lieto le stelle 'l ciel move e governa.
Né meno glorioso di questi fu Simone fratello carnale di Federico, il quale condusse a tanta perfezione i mecanici stromenti, e l'arte prima non molto conosciuta dagli Italiani del compasso, che ragionevolmente si può riverire come non solo illustratore, ma ristauratore, anzi inventore di magisterio così nobile, ond'egli senz' alcun eguale visse, e già decrepito morì felice, dal consenso universale questa chiarissima laude e sua propria ricevendo, che mai dacché nacque il mondo sia stato nella professione da sé trattata uomo a lui simile o pari, da questi esempi aviti, paterni e fraterni questi stimoli d'emulazione e d'onore credete voi che si aggiungessero nella mente ardentissima di fama e di lode del gran Federico? Non aveva egli bisogno di rimirare gl'esterni: bastava solo che ne suoi maggiori quasi in tersi specchi rivolgesse il pensiero, ne quali poteva contemplare quelle nobilissimi immagini di virtù così degne e così belle, com'egli le sapeva ritraggere, da tanti acutissimi incentivi infiammato s'incaminò per la via della gloria seco avendo un acutissimo ingegno, un continuato studio, una fatica non interrotta, una diligenza esattissima; poiché egli sino da primi anni molto meglio amò gloriosamente fatigando offerire, proporre con la propria eccellenza un celebre ed ammirato spettacolo di se stesso al mondo, che facendo agio molle a sensi godere in ozio biasimevole le ricchezze mediocri, e le ora tranquille della vita.
Quindi applicossi all'arte antichissima ed egregia della pittura, alla quale era dai cieli, dalla patria, dall'inclinazione, dall'esortazione efficacemente chiamato. Nel che l'elezione del Baroccio merita molta laude: poiché sebbene per felicità naturale era egli dotato di moltissime virtù, che a varie cose lo eccitavano, tuttavolta sapendo che quelli solamente frutti maravigliosi dalle scienze e dalla professioni ritraggono, che sieguono l'ordine ed il desiderio più potente delle naturali propensioni, al dipingere si diede, al quale anche pargoletto infante era deditissimo; ed eleggendo un'arte onorata e riputata molto dimostrò chiaramente al mondo la sua prudenza. Poiché la pittura, o signori (ed è ben ragione che celebrando un sì degno pittore io non taccia di lei), è stata sempre in molto onore, onde appresso i Greci era una legge, che solo i nobili potessero attendere a quest'arte, e segno evidente abbiamo della nobiltà sua dalle contradizioni che sono tra principalissimi autori intorno al suo natale; che s'ella non fosse nobilissima e chiarissima, non verrebbero quasi all'armi le principali nazioni e città del mondo per attribuirne ciascheduna a sé l'origine; poiché Aristotile vuole che Pirro parente di Dedalo ne fosse l'autore; Teofrasto affermo ch'ella è stata invenzione di Polignoto ateniese; Plinio lasciò scritto che fu ritrovata da Gigilidio, gl'antichi e misteriosi Egizii, ambiziosi di questa gloria, dissero ch'ella per migliaia d'anni fiorì prima tra loro che nella Grecia, di modo tale che la verità da tanti autori chiamata in certame ha di maniera temuto della propria salute, che in lontanissime parti fuggendo, benché da molti con velocissimo corso seguìta, e con somma diligenza ricercata, s'è rapita a senso de mortali in maniera che non s'è mai potuta ritrovare; per lo che le fosche tenebre, nelle quali è profondamente avolto il suo principio, hanno contro il costume loro fatta chiara e lucidissima per antica nobiltà l'arte della pittura, della quale i monarchi, gl'imperatori, i principi, i capitani furono così vaghi, che molte volte una ben dipinta immagine con altissimi prezzi commutarono. Onde quelli che hanno questa buona sorte di possedere qualche opera di Raffaello o di Federico Baroccio ambi d'Urbino, quasi nobilissimi tesori, quasi gemme rarissime le tengono, le conservano e le ammirano; anzi, i grandissimi regi, che da gravissime occupazioni circondati involano per lo più se stessi a gl'occhi nostri, non isdegnano d'essere continuati oggetti dell'arte e de pittori, e con incredibile toleranza senza piegarsi punto, senza respirare, attenderanno che l'artefice conduchi a perfezione il proprio ritratto. Quindi per opera di questi siamo fatti degni di contemplare e di ammirare i regii e nobilissimi aspetti dei Ciri, degl'Alessandri, de Scipioni e dei Cesari l'effigie, de quali sarebbero spente, se l'industria de pittori all'oblivione ed al tempo furandole non l'avessero dalla morte difese; ella ne rappresenta vive ancorch'estinte le bellezze, i lineamenti, il sembiante dei cari padri e dei fedeli amici. Per lo che l'occhio fra tutti gl'oggetti visibili non ha il più vago o 'l più gradito d'una bella pittura; ma qual maggiore o più fido testimonio potiamo noi per sì nobil arte addurre della nostra religione, la quale stima tanto i professori di lei, che non sa ritrovar maniera, onde più desti l'affetto e la divozione, che con un ben dipinto quadro, de quali vediamo vagamente ornati i più superbi delubri del mondo; che a dire il vero, chi non arderebbe di carità fervente in contemplando il nobilissimo quadro del maggiore altare di questo illustre tempio, opera del nostro Baroccio, nel quale si mira quell'umilissimo santo genuflesso e con divota attenzione rivolto al cielo in aria così divina e tanto piena di spirito, che nell'istesso tempo mentre genera un riverente stupore, infiamma l'affetto ed appaga la mente; maravigliose immagini, nobilissime immitazioni, gloriose pompe del mondo, illustri parti degl'umani intelletti! Dall'eccellenza di quest'arte impetrò la sua conservazione quella greca città, poiché l'empio tiranno Demetrio, già risoluto di ridurla in minutissima cenere, per non distruggere alcune pitture, che v'erano d'eccellentissimi artefici, raffrenò lo sdegno, sciolse il duro assedio, e condonando a suoi cittadini l'amata patria, d'implacabile nemico divenne cortese ministro della loro salute. Questa dunque è stata l'arte eletta da lui, questo il magisterio, nel quale impiegò felicemente le ore, gl'anni e la vita: arte faticosa e difficile, ma giocondissima ancora e gloriosa. Resta che vediamo qual termine egli attingesse di perfezione; il che siccome è malagevole ad esprimersi, così anche procurerò con ogni mio potere d'adombrarlo.
Non ha dubbio, o signori, che l'immitazione è cosa naturale, e per consequenza di molto diletto; del che ne serve per segno vero che le cose per natura spaventevoli ed abborrite, come un leone, una tigre, un mostro perfettamente immitate e dipinte recano piacere ai riguardanti, e con tanta efficacia alla immitazione il diletto si congiunge, che quanto più del naturale s'immita e si rappresenta, tanto è maggiore il conforto che se ne prende, perché la perfezione del pittore nel compitamente immitare consiste, onde se vogliamo conoscere quanto eccellente sia l'artefice, osserviamo quanto eccellentemente immiti; che da questa regola quasi da pietra di paragone si conoscerà molto bene quante e quali lodi s'abbiano d'accumulare nel pittore; e quindi avviene che, se cose immitate sono difficili a rappresentarsi, e se nondimeno al naturale si dipinghino, per l'ordinario si giudica che l'autore dell'opera sia molto eccellente. Per il che gl'intendenti reputano maravigliose le pitture di Raffaello, e quelle in particolare che si scorgono nelle stanze papali, e fra queste ergono con maravigliosi encomi alle stelle l'immagine di san Pietro nelle prigioni, poiché oltre il formarlo con tutte le immaginabili perfezioni richieste dall'arte, vi si scopre una luce, una distanza così difficilissima a dipingersi, così notabile, che ragionevolmente è degna d'infinita ammirazione; ed è riverito come un supremo termine dell'arte, il che si vede e forse non meno anche nel divotissimo quadro del Baroccio che godono li Padri Cappuccini, nel quale sono con tanta proprietà dipinti i celesti raggi amorosamente efficaci, e violenti impressori delle sagre stimmate, che vi si discerne il tutto così al naturale, che sembrano raggi veri e non dipinti. E quella forza e quelli affetti di carità, quell'efficacia, quello spirito che vi si conosce, siccome con difficoltà si rappresenta, così anche sono certissimi segni e giudici dell'eccellenza del pittore; la qual parte, la qual condizione in tutte le opere di Federico eminentemente si ammirano, poiché se descrive un cielo, sembra il cielo istesso in poca tela accolto; se una pianta, non si comprende che sia pittura; se una tigre, spaventa più l'imitazione che la fiera istessa; se un uomo, pare un uomo vivo. Sendosi egli dunque proposto, merceché conosceva se medesimo, un fine altissimo, ed avendo per costante che fra gl'aiuti quello della diligenza propria piucché gl'altri tutti opera e vale, fin dagl'anni più teneri rifiutando ogn'altro maestro, e ricoverandosi in casa del Genga suo parente e nostro concittadino, uomo insigne ed architetto allora del serenissimo Guid'Ubaldo di felice memoria, ebbe commodità di studiare e di copiare con somma diligenza alcune opere di Tiziano, le quali siccome furono d'utile grandissimo a Federico, così parimenti fecero più celebre il pittore. A tale scuola adunque assiduamente usando apparò tutte le particolarità dell'arte, e con questi fondamenti poté poscia innalzare un maraviglioso tempio di gloria inesplicabile all'eternità. Nondimeno aspirando a più alto segno, divenuto imitatore di Pitagora, di Platone e di Erodoto, che per apprendere le scienze felicemente in varie parti peregrinarono, dopo d'avere le più chiare città d'Italia vedute, sapendo che a Roma, oltre la copia d'illustri artefici viventi, v'abbondavano le opere d'uomini nella professione chiarissimi, deliberò di trasferirsi a quella nobil patria, nella quale dimorando per alcuni anni con pitture eccellentissime confermò la concetta espettazione, e divenne famosissimo. Ma che? Le cose del mondo sono di maniera alle mutazioni soggette, che solo nell'essere incostanti ritengono fermezza. Ecco questo uomo grande mentre con velocissimi passi correva al sommo della gloria da gravi accidenti scosso ed agitato in maniera che rimanendo stremo di sanità non solo non poté seguire l'intrapresa inchiesta, ma le convenne ritornare con poca speme di sopravvivere all'amata patria; il quale infortunio certamente per somma e divina Provvidenza le fu permesso, acciò da quello si facessero chiare le altre sue virtù, che non erano così ben note, ma rinchiuse nel centro dell'animo e del cuore furono da se medesimo solamente conosciute: quindi con la costanza e con la sofferenza lasciò memorabile esempio a noi mortali e con le opere n'insegnò che la fortuna ha qualche parte sopra le cose corporee ed esterne, ma non però si estende all'anima immortale, che ricca di se stessa e de propri fregi degnamente ornata, quasi nobilissima regina e vincitrice, preme ed opprime le maligne influenze di contraria sorte, le quali non solo a lei nocumento non apportano, ma bene spesso divengono mezzi efficaci e ministri certissimi della sua gloria. Ecco il Baroccio, che con tanto danno e privato e publico giace in letto e langue: eppure con fortezza inestimabile fece così nobil resistenza al colpo mortale, che compatito e compassionato da tutti pareva, che dimenticato di se stesso egli compatisse agl'altri, e che più l'affliggessero gl'altrui rammarichi che i propri danni, che i suoi dolori istessi; poiché non altrimente egli soffriva così grave e repentina percossa, e non altrimenti nelle miserie si portava, ch'altri fra mille felicità nel più bel corso delle terrene dolcezze dimostrato si sarebbe. Onde ben si conosceva in lui che le virtù nascevano dalla propria diligenza, siccome gl'affanni e le tribulazioni dalla malignità non so s'io debba dire della fortuna o degli uomini. Alla perfine dopo l'avere alcuni anni con somme lodi esercitata la pazienza, la fortezza e la costanza, fece divoto riccorso a Dio, che rimirandolo con occhio di pietà celeste prestò pietoso alegiamento al suo male; poiché ricuperò se non intieramente la salute, almeno in modo ch'egli poté compire tanti nobilissimi quadri, che per le più famose città d'Europa s'ammirano; e se rimase in lui qualche impedimento come restò sino alla fine della vita, restò cred'io perch'egli confessasse d'averlo per miracolo conseguita, perché seco avesse congiunta l'occasione di meritare, anzi acciò si rammentasse d'esser uomo; poiché send'egli di così chiare ed eminenti virtù fregiato, non era gran cosa che la memoria della fragilità nostra le fuggisse. Seguitò nondimeno con l'istesso fervore l'incominciato camino alla gloria, ed in breve si sparse delle virtù sue per tante belle opere così nobil fama, che per giudizio comune era giudicato superiore agl'antichi; e piacesse pure al cielo che le pitture di Zeusi, di Apelle, di Protagora e di Parasio si fossero vive negl'effetti, come nella memoria degl'uomini conservate, che so ben io quanto da sì degno paragone più si riverirebbe il Baroccio, della qual colpa abbiamo giustamente a fare tanto il tempo, quanto l'invidia, rei; poiché consumando e coprendo opre sì chiare hanno benché indirettamente oscurati i quadri di Federico, conciossiaché per se medesimo non tanto perfettamente si conoscono, quanto da questa comparazione si farebbero illustri. Onde siccome li più nobili artefici da bellissimo paraggio maravigliosi frutti riporterebbero, così anche la nostra patria Urbino con più sensibili dimostrazioni gioirebbe d'aver al mondo prodotti due figli a qualsivoglia degl'antichi superiori. Ma sebbene siamo di questa consolazione privi, dalle regole nondimeno dell'arte si scorge nelle opere sue così alta e così illustre immitazione, ch'elleno altro in verità non sono che nobilissimi tesori della pittura, che così veramente uniche e singolari, essendoche il Baroccio, come già fece Apelle, il quale da mille vedute e sparse bellezze formò quella maravigliosa Venere da mille forme di dipingere abbracciate da pittori eccellenti, trasse quelle perfezioni ch'erano in esse, dalle quali compose quella sua maniera tanto ammirata, e dai maggiori uomini del mondo seguita, in cui si comprendono i più reconditi segreti dell'arte, aggiungendovi il modo suo proprio di colorire, ch'oltre l'essere allegrissimo e pieno, è vivo e più durabile di qualsivoglia altro; onde ne futuri secolo saranno li quadri suoi più belli, poiché dal tempo superata ed affinata quella vivezza de colori, acquisteranno un essere, nel quale tutti appieno s'acqueteranno. Maraviglioso provvedimento in vero, poiché sapendo egli che le pitture non sono immortali, cercò di preservarle dalle ingiurie del tempo con un copioso e vivissimo colorito piucché possibil fosse, acciò le età seguenti fossero degne se non di vedere l'autore, almeno d'ammirare le chiarissime memorie delle sue virtù, dal quale onestissimo desiderio stimolato con tanta diligenza v'applicava il pensiero, che in questo tutti gl'artefici e passati e presenti si lasciò di lunghissimo spazio addietro. E quindi aveva origine la tardanza delle opere, perché sebbene egli con somma prestezza esercitava il suo talento, tuttavolta a nessun termine di perfezione contento stava; anzi timoroso che altri non desse menda alle sue meraviglie, bellezze a bellezze, artificio ad artificio aggiungendo, produceva finalmente allo splendore del mondo e della gloria le più nobil pitture che mai vedesse l'arte; del che seg
Commento
Vittorio Venturelli (1584-post 1641) pronuncia l'orazione funebre per le esequie Barocci nella chiesa di San Francesco (segnalata da Olsen 1962, pp. 20-21, nota 2; pubblicata per intero in Baroni 2015, da cui si riprende, con minime varianti, la trascrizione dal manoscritto della Biblioteca Universitaria di Urbino, Archivio Storico del Comune, ms. Urbino 73, eseguita dal dottor Federico Marcucci). Il testo di Venturelli non solo dà conto del radicamento profondissimo del pittore nella città natale e nella corte, ma anche segnala alcuni dipinti del maestro non rubricati in precedenti fonti a stampa: le Stimmate di san Francesco già nella chiesa dei Cappuccini a Urbino e oggi nella Galleria Nazionale delle Marche; la Crocifissione tuttora sull’altare dell’Oratorio della Morte; l’Istituzione dell’eucarestia nella cappella Aldobrandini in Santa Maria sopra Minerva. Venturelli rievoca inoltre il Perdono, la Vocazione di Sant’Andrea spedita all’Escorial e la Fuga di Enea da Troia mandata a Rodolfo II. Questa orazione fu tra gli strumenti adoperati da Giovan Pietro Bellori per intessere la Vita di Barocci (vedi 1672). [Barbara Agosti, Anna Maria Ambrosini]
Trascrizione
«Orazione funebre per celebrare nella chiesa de Reverendi Padri Conventuali di Urbino il giorno delle solenni esequie all'insigne pittore Federico Barocci urbinate da Vittorio Venturelli intimo ed affettuoso suo concittadino composta e recitata
Questo veramente illustre, e non meno antico che memorabil uso, che appresso gli Ateniesi era legge di celebrare con publica orazione in pieno teatro i meriti e le virtù degli uomini, che per opere egregie hanno morendo appresso i posteri lasciata immortale e gloriosa memoria loro siccome è degno d'infinita lode, così parimente con giustissima ragione è stato dai più guerrieri popoli e dalle più conosciute nazioni del mondo seguito ed abbracciato. Posciaché mentre gli onorati fatti d'ingegni eminentissimi si commendano, nell'istesso tempo si danno alla virtù sempre venerabile e sempre ammirata quasi nobilissimi tributi li meritati premi; e ne mortali s'imprime un ardente desiderio d'imitarli.
Onde con generosa emulazione come leggiamo di Temistocle e di Milziade, d'Ercole e di Teseo, procurando i viventi di premere le stesse laudabili vestigia degli antenati siccome si mostrano seguaci ed immitatori celebri d'uomini eccellenti, così anche la sete della gloria quasi per successione ereditaria nelle seguenti età si viene e perpetuando e propagando, e la virtù produttrice della fama con nuovi parti d'opere e d'azioni maravigliose rende se stessa e più chiara e più cara: e sebbene tal ora il merito e le doti degl'umani intelletti pervengono a grado di tanta eminenza, che si possono anzi ammirare con l'animo e col silenzio, che celebrare con la voce e con le parole (come ora avviene a me, che devo ragionare del grandissimo Federico Baroccio nostro concittadino in guisa a tutte le lodi superiore, che ne mortali ha piutosto lasciato desiderio che speranza di poterlo immitare); non per questo è così nobile usanza messa in abbandono, anzi quanto più considerabili erano le virtù di colui che l'aveva a lodare, tanto più volontieri in così nobile impresa l'animo e l'eloquenza impiegavano; e se le parole degli oratori non adequavano il merito, tanto prendevano allegrezza gli ascoltanti chiaramente conoscendo che nel miglior modo possibile e coi maggiori premi che si trovassero era onorata la memoria di quelli che gloriosamente avevano cangiata la vita in morte, e che non si potessero più lodare, e che non se le potessero più degni onori attribuire, era somma lode, era inesplicabile onore dell'estinto.
Non è dunque meraviglia, o signori, se l'antichissima e nobilissima città d'Urbino vera immitatrice delle virtù degli antichi si compiace con funebri pompe e con publica orazione di riconoscere la riguardevole eccellenza di questo suo chiarissimo e dilettissimo figlio, e di consegnarla con veri onori alla posterità. Poiché sebbene questa affettuosa dimostrazione è poco, non ritrovandosi in terra premio che alla vera virtù sia pari, nondimeno goderà l'anima sua felice di ricevere dall'amata patria i più cari segni, i più veri frutti d'amore e d'ossequio, che si possino dare. E quantunque l'elezione del dicitore non sia conforme al soggetto degnissimo dei più famosi oratori, tuttavolta io supplico quelle ossa venerabili, e voi tutti, che prendiate in grado questo mio pietoso officio, il che tanto più dovete concedermi; poiché i degni parti del Baroccio sono per se medesimi così chiari, che per essere lodati e conosciuti, di molta eloquenza non v'è duopo: oltrecché non potrà cadervi nel pensiero che la verità sia da me coi più riposti secreti dell'arte o nascosa o rabellita; o che la forza del dire renda maggiori di quello che si crede gl'alti suoi meriti; anzi, sapendo tutti ch'io sono per dispiegarvi semplicemente il vero, e che se nel ragionamento apparirà difetto, anzi sarà nel dir poco che molto, e nel diminuire piutosto che nell'accrescere le sue laudi, salirà nell'istesso tempo la gloria del Baroccio in più venerazione, e sia più cara, avegnache la verità tanto più si gradisca, quanto più è pura, ed io così facendo acquisterò tanta fede a miei detti, che saranno superflui con voi nobilissimi signori quelli retorici artifici, de quali tutti si vagliono per far benevoli, attenti e docili gli ascoltanti; che a dirne il vero l'istesso Baroccio da se medesimo ancorché morto, così necessario officio perfettamente adempie. Onde s'io volessi nel discorso incominciato d'alcune cose all'intento utilissime ammonirvi, fora inutile; poiché trattandosi di lui senz'altro vengo eccellentemente a conseguire quanto desidero, se bramassi rendervi alla mia causa amici e benevoli, tentarei cosa vana; conciossiacosache il presente soggetto è il più amabile e il più glorioso ch'altrui s'offerisse giammai, se fossi vago di produrre attenzione in voi, consumarei le ore senza pro, merceche l'l mio tema n'è tanto degno per se stesso, quanto altro da qualsivoglia dicitore per l'addietro o trattato o proposto; perché vorrei sapere come sia possibile ragionare del Baroccio, uomo così glorioso, e che gl'uditori non siano attenti? Avere per soggetto dell'orazione uno spirito illustre eguale agli antichi, superiore ai presenti, e maggiore di quelli che verranno, e non tenervi fisso il pensiero? Vedete, o signori, quante sono le opere di Federico, tante sono le meraviglie che procurano quest'attenzione: quante pitture, quanti ritratti, quante linee egli trasse giammai, tante sono le cagioni che vi fanno attenti, in modo tale che quand'anche voleste col pensiero andar vagando, le cose dette vi sforzeranno con obbligata e non errante intenzione ad ascoltarmi. E perché non vi faceste a credere che in questo venerabile antichissimo tempio fra così chiara ed illustre corona d'ascoltanti, in così profondo ed onorato silenzio io volessi anzi l'aura popolare ed il commune applauso apprestarmi, che le promesse attendervi, di grazia cominciamo, e conoscerete che le cose da me proposte sono tali che danno conforto a suoi parenti, accendono in noi desiderio d'imitazione, rendono la memoria del Baroccio amabile ed ammirabile, fanno me degno di fede, ed a sé rapiscono l'attenzione di tanti signori, e di tutti che m'ascoltano.
Una maravigliosa ed infinita Provvidenza, con la quale dolcemente ed ordinatamente le cose di quaggiù si reggono, prescrive e vuole che non tutte le perfezioni in un sol uomo si ritrovino, né che tutti gl'ornamenti desiderabili di natura, di fortuna e d'arte in un soggetto si congiunghino; poiché se questo avvenisse, si toglierebbe il commercio umano, ed il possessore di tanti beni come eccedente le condizioni della nostra fragilità sarebbe anzi un Dio terreno che uomo mortale; quindi la provvida natura, acciò le umane genti sgambievolmente si potessero sovvenire ed acciò questi alle necessità di quelli porgesse aiuto, dispensò con tanta eccellenza li doni suoi, che il considerarlo è cosa degna d'infinita meraviglia, poiché vediamo altri ricchi, ma sordidi; altri nobili, ma poveri; molti abbondanti di figli, ma privi di virtù; molti vivere illustri per le scienze, ma da mille infortuni essere acerbamente afflitti e combattuti. Laonde pur troppo è chiaro che tutti i viventi mancano di molte cose; per l'acquisto delle quali trattando insieme, e vicendevolmente accomodandosi si nutrisce l'amore, si conservano i regni, e con rimotissimi popoli si contraggono amicizie e confederazioni; e se pure tal ora avviene che ne terreni ingegni alcuni di così chiare doti risplendino, questi sopra gl'altri eminenti sono dal comune consenso come per natura superiore riveriti ed ammirati. Poiché tale è la condizione della virtù, che rende sempre degni d'onore e di ammirazione gli ornati di quella. Perloche dobbiamo giudicare felicissimo il Baroccio, nel quale tante grazie di natura, di fortuna e d'arte, che sparse e divise ed imperfette negl'altri si mirano, stabilirono con ferma ed eccellentissima unione una sede veramente indivisibile; avegnache la patria nobilissima, la famiglia onorata ed antica, l'eccellenza in quella, gl'onori conseguiti, le opere fatte, l'erudizione, e tant'altre virtù s'accoppiarono in lui, che lo resero ammirabile e celeberrimo.
Nacque Federico nella patria nostra comune d'Urbino città per se stessa d'immemorabile antichità, della quale fanno lodevole menzione i Ciceroni, i Varroni, i Taciti, i Plinii ed altri autori di grandissimo grido, che di tempo in tempo ha prodotto uomini di molta eccellenza e nelle lettere e nelle armi e nelle arti, li quali come suoi legittimi e grati figli resero presso le nazioni esterne più celebre e più venerabile il nome suo. Quindi ella sendo per centinaia già d'anni paternamente e con somma felicità retta e governata dall'antichissima e nobilissima famiglia di Monte Feltro e della Rovere, madri fecondissime de maggiori principi e capitani d'Europa, ha potuto mediante così degna protezzione conseguire tanti onori e dignità, che senz'altro ella non cede a qualsivoglia, benché di grandezza e di ricchezza maggiore. Come l'essere metropoli d'uno stato così nobile, dal quale Roma già due volte riconobbe la sua salute, il titolo antico di ducato ottenuto dal gran pontefice Eugenio IV, l'archiepiscopale dignità, lo Studio publico, un così autorevole Collegio, nel quale gl'Appi, li Publicoli, i Catoni abbondano; l'ordinaria residenza d'un tanto assoluto ed eminente Consiglio atto a reggere uno ed infiniti mondi, quando infiniti mondi come voleva Democrito si ritrovassero; la magnificenza inesplicabile della corte ed altre meraviglie, ch'io sotto silenzio trascorro, confermano con certa ed irrevocabile testimonianza i miei detti. Ma sebbene per tanti onori ella è già chiara e celebre, tuttavolta abbiamo anche bene spesso a rammentarci ch'è stata grandissima la fama e la gloria sua di avere per mezzo de propri cittadini illustrate, anzi restituite al mondo alcune arti negli antichi tempi di somma riputazione, come sono le matematiche discipline, l'architettura, gl'orologi, li mecanici stromenti, ed in particolare la pittura, la quale per tacere ora delle altre fu nella pristina grandezza ricondotta dal grandissimo Raffaello Sanzio da Urbino, ch'emulo di tutta l'antichità con l'eccellenza del sapere, con la felicità dell'ingegno poté fare eterno il suo nome, innalzare alla patria un trofeo degnissimo di vero onore, e dalle profonde tenebre dell'oblivione, nella quale era professione così celebrata miseramente sepolta, sospingerla in chiarissima luce di gloria. Non parvi dunque, o signori, illustre e desiderabile orbamento questi del Baroccio, essendo non in semplice villa, non in breve ed angusto castello, non in luogo ignobile ed incognito, ma nella fedelissima città d'Urbino venuto al mondo? E se quel vetustissimo filosofo rendeva somme grazie al cielo di prendere origine non da barbari, ma da Greci, e dalla degna città d'Atene produttrice ed altrice avventurosa negli andati tempi d'uomini chiarissimi, crediate pure che anche il Baroccio in sommo pregio avesse d'essere urbinate, onde trassero l'aura vitale e la luce ove fiorirono i più celebri pittori del mondo ov’egli s'elesse di vivere e di morire. Ma non vorrei che il desiderio e la consolazione, della quale internamente abbondo in ragionare della mia patria, mi divertissero dall'intento principale; ch'in vero io farei torto a lei se così brevemente ne parlassi, ed a Federico, che offerendomi così ampia e così degna occasione di discorso, io nondimeno quasi povero di soggetto procurassi da cagioni esterne, come sogliono gl'oratori in materia sterile, d'ampliare il tema; tuttavolta mi scuseranno, poiché sono così congiunte le laudi di Federico con quelle della patria, e quelle d'Urbino col Baroccio, che difficilmente si possono commemorar queste, se non si spiegano in parte quelle; siccome altresì non si possono lodare gl'effetti ed i figli, se non si celebrano i genitori e le cagioni: anzi, siccome le tenere piante in fertile terreno inserte crescono verdeggianti e felici, così gli uomini dalla natura d'egregie inclinazioni dotati, se fanno l'età loro in luoghi, ove la virtù sia conosciuta ed apprezzata, è malagevole il dire quanto sopra gl'altri s'avvanzino, e come dalle sofferte fatiche abbondantissimi frutti di fama e di gloria raccolghino. Non è dunque meraviglia se 'l Baroccio, al quale conferì la natura tanti e sì rari doni, che quasi pareva ch'ella si fosse dimenticata d'averlo fatto mortale, menando la sua vita in Urbino fecondissimo clima, e sotto fortunata astersione collocato per la produzione de nobili ingegni, e felicissimo nutritorre d'anime gloriose, abbia corrisposto alla espettazione universale, nella quale appresso tutti egli viveva, ed offerto e consecrato alla immortalità con mille opere eroiche, la memoria inestinguibile del nome suo.
Ma siccome la fertilità del terreno non è per se medesima bastante a produrre ottimi frutti, se dalla diligenza del cultore non è sostenuta ed aiutata, così parimenti non è possibile che l'uomo conduchi a perfezione le naturali e buone qualità, né che le faccia da se medesimo virtù compite, se dall'esempio de maggiori, se da maestri, se dall'ottima educazione non è prima instrutto ed incitato, poiché privo di questi sostegni, quasi corpo valido ma senza luce, erra bene spesso, ed incespa. Quindi per eterna ed incognita provvidenza, acciò nel Baroccio nulla si desiderasse, egli nacque d'onorata ed antica famiglia, che di tempo in tempo diede al mondo ed alla patria uomini chiari ed eminenti, come per tralasciare i più vecchi tra gl'altri è stato l'avo suo Marc'Antonio, che nelle leggi consumatissimo esercitò con molta gloria in principali carichi tutti quasi gl'officii, che per ben reggere i popoli sogliono i nostri serenissimi principi conferire a persone d'approvata letteratura e di conosciuta bontà; dal quale nacquero due figli delle virtù paterne industriosi eredi, che nel breve giro di pochi anni donarono alla luce de mortali con numero pari per ciascheduno quattro uomini, che senza contradizione furono i maggiori, che mai nascessero nelle arti loro; li nomi de quali per non defraudarli della debita laude è bene che a voi nobilissimi ascoltanti brevemente rammemori; e sono Giovanni Battista, Giovanni Maria, Simone e Federico, al quale questo nostro discorso rimira. Li primi due diedero opera a quelli matematici e filosofici stromenti da noi chiamati orologi, ed altri simili, dai quali dividendosi in 24 parti eguali il giro diurno del primo mobile, che gl'altri cieli ed anche la sfera del fuoco e parte dell'aere incessantemente rapisce, conosciamo l'ore, i punti e tutti i progressi di quel moto, e vediamo i segni del zodiaco, e sotto quale i pianeti ed il sole si riparino; onde poscia per lo vivere umano da questa giocondissima cognizione riportano gl'uomini infinite utilità, nella qual arte quanto si profondassero Giovanni Battista e Giovanni Maria, lascerò piutosto che la fama da essi degnamente acquistata e per ogni parte diffusa lo dichiari, ch'affaticandomi con le parole non conseguire l'intento; poiché solo quel maraviglioso orologio opera di Giovanni Maria basta a renderli immortali, del quale i sommi pontefici onorarono le proprie abitazioni, in cui con maraviglioso artificio si vedono descritte le celesti immagini, si scorgono immitati con tanta eccellenza i moti supremi delle sfere eterne, che veramente pare le bellezze del cielo, i movimenti di quei corpi immortali, anzi i cieli medesimi essere trasferiti e rinchiusi entro le brevi ed anguste mete che di quella sfera meravigliosa di vetro fatta dall'eccellentissimo Archimede lasciò scritto in un elegantissimo epigramma Claudiano, che poi la sua bellezza nella materna lingua da me trasferito ha questo senso:
Mirando Giove in picciol vetro i cieli
Agli altri Dei rivolto arrise, e disse:
Ecco fin dove de mortali arriva
La cura e la potenza. in un cristallo
Le mie fatiche per ischerno accolte
De dèi la legge, e gl'ordini dei poli
De le cose fa fede: ecco per arte
Del gran Siracusan locate altrove
L'inchiuso spirto a varie stelle aspira,
Coi certi moti la grand'opra adempie.
Trascorre il finto sole i segni e l'anno
E la scolpita luna al nuovo mese
Ritorna errando, e 'l proprio giro eterna:
Così laudata industria un nuovo mondo
Informa e volge; e l'intelletto umano
Lieto le stelle 'l ciel move e governa.
Né meno glorioso di questi fu Simone fratello carnale di Federico, il quale condusse a tanta perfezione i mecanici stromenti, e l'arte prima non molto conosciuta dagli Italiani del compasso, che ragionevolmente si può riverire come non solo illustratore, ma ristauratore, anzi inventore di magisterio così nobile, ond'egli senz' alcun eguale visse, e già decrepito morì felice, dal consenso universale questa chiarissima laude e sua propria ricevendo, che mai dacché nacque il mondo sia stato nella professione da sé trattata uomo a lui simile o pari, da questi esempi aviti, paterni e fraterni questi stimoli d'emulazione e d'onore credete voi che si aggiungessero nella mente ardentissima di fama e di lode del gran Federico? Non aveva egli bisogno di rimirare gl'esterni: bastava solo che ne suoi maggiori quasi in tersi specchi rivolgesse il pensiero, ne quali poteva contemplare quelle nobilissimi immagini di virtù così degne e così belle, com'egli le sapeva ritraggere, da tanti acutissimi incentivi infiammato s'incaminò per la via della gloria seco avendo un acutissimo ingegno, un continuato studio, una fatica non interrotta, una diligenza esattissima; poiché egli sino da primi anni molto meglio amò gloriosamente fatigando offerire, proporre con la propria eccellenza un celebre ed ammirato spettacolo di se stesso al mondo, che facendo agio molle a sensi godere in ozio biasimevole le ricchezze mediocri, e le ora tranquille della vita.
Quindi applicossi all'arte antichissima ed egregia della pittura, alla quale era dai cieli, dalla patria, dall'inclinazione, dall'esortazione efficacemente chiamato. Nel che l'elezione del Baroccio merita molta laude: poiché sebbene per felicità naturale era egli dotato di moltissime virtù, che a varie cose lo eccitavano, tuttavolta sapendo che quelli solamente frutti maravigliosi dalle scienze e dalla professioni ritraggono, che sieguono l'ordine ed il desiderio più potente delle naturali propensioni, al dipingere si diede, al quale anche pargoletto infante era deditissimo; ed eleggendo un'arte onorata e riputata molto dimostrò chiaramente al mondo la sua prudenza. Poiché la pittura, o signori (ed è ben ragione che celebrando un sì degno pittore io non taccia di lei), è stata sempre in molto onore, onde appresso i Greci era una legge, che solo i nobili potessero attendere a quest'arte, e segno evidente abbiamo della nobiltà sua dalle contradizioni che sono tra principalissimi autori intorno al suo natale; che s'ella non fosse nobilissima e chiarissima, non verrebbero quasi all'armi le principali nazioni e città del mondo per attribuirne ciascheduna a sé l'origine; poiché Aristotile vuole che Pirro parente di Dedalo ne fosse l'autore; Teofrasto affermo ch'ella è stata invenzione di Polignoto ateniese; Plinio lasciò scritto che fu ritrovata da Gigilidio, gl'antichi e misteriosi Egizii, ambiziosi di questa gloria, dissero ch'ella per migliaia d'anni fiorì prima tra loro che nella Grecia, di modo tale che la verità da tanti autori chiamata in certame ha di maniera temuto della propria salute, che in lontanissime parti fuggendo, benché da molti con velocissimo corso seguìta, e con somma diligenza ricercata, s'è rapita a senso de mortali in maniera che non s'è mai potuta ritrovare; per lo che le fosche tenebre, nelle quali è profondamente avolto il suo principio, hanno contro il costume loro fatta chiara e lucidissima per antica nobiltà l'arte della pittura, della quale i monarchi, gl'imperatori, i principi, i capitani furono così vaghi, che molte volte una ben dipinta immagine con altissimi prezzi commutarono. Onde quelli che hanno questa buona sorte di possedere qualche opera di Raffaello o di Federico Baroccio ambi d'Urbino, quasi nobilissimi tesori, quasi gemme rarissime le tengono, le conservano e le ammirano; anzi, i grandissimi regi, che da gravissime occupazioni circondati involano per lo più se stessi a gl'occhi nostri, non isdegnano d'essere continuati oggetti dell'arte e de pittori, e con incredibile toleranza senza piegarsi punto, senza respirare, attenderanno che l'artefice conduchi a perfezione il proprio ritratto. Quindi per opera di questi siamo fatti degni di contemplare e di ammirare i regii e nobilissimi aspetti dei Ciri, degl'Alessandri, de Scipioni e dei Cesari l'effigie, de quali sarebbero spente, se l'industria de pittori all'oblivione ed al tempo furandole non l'avessero dalla morte difese; ella ne rappresenta vive ancorch'estinte le bellezze, i lineamenti, il sembiante dei cari padri e dei fedeli amici. Per lo che l'occhio fra tutti gl'oggetti visibili non ha il più vago o 'l più gradito d'una bella pittura; ma qual maggiore o più fido testimonio potiamo noi per sì nobil arte addurre della nostra religione, la quale stima tanto i professori di lei, che non sa ritrovar maniera, onde più desti l'affetto e la divozione, che con un ben dipinto quadro, de quali vediamo vagamente ornati i più superbi delubri del mondo; che a dire il vero, chi non arderebbe di carità fervente in contemplando il nobilissimo quadro del maggiore altare di questo illustre tempio, opera del nostro Baroccio, nel quale si mira quell'umilissimo santo genuflesso e con divota attenzione rivolto al cielo in aria così divina e tanto piena di spirito, che nell'istesso tempo mentre genera un riverente stupore, infiamma l'affetto ed appaga la mente; maravigliose immagini, nobilissime immitazioni, gloriose pompe del mondo, illustri parti degl'umani intelletti! Dall'eccellenza di quest'arte impetrò la sua conservazione quella greca città, poiché l'empio tiranno Demetrio, già risoluto di ridurla in minutissima cenere, per non distruggere alcune pitture, che v'erano d'eccellentissimi artefici, raffrenò lo sdegno, sciolse il duro assedio, e condonando a suoi cittadini l'amata patria, d'implacabile nemico divenne cortese ministro della loro salute. Questa dunque è stata l'arte eletta da lui, questo il magisterio, nel quale impiegò felicemente le ore, gl'anni e la vita: arte faticosa e difficile, ma giocondissima ancora e gloriosa. Resta che vediamo qual termine egli attingesse di perfezione; il che siccome è malagevole ad esprimersi, così anche procurerò con ogni mio potere d'adombrarlo.
Non ha dubbio, o signori, che l'immitazione è cosa naturale, e per consequenza di molto diletto; del che ne serve per segno vero che le cose per natura spaventevoli ed abborrite, come un leone, una tigre, un mostro perfettamente immitate e dipinte recano piacere ai riguardanti, e con tanta efficacia alla immitazione il diletto si congiunge, che quanto più del naturale s'immita e si rappresenta, tanto è maggiore il conforto che se ne prende, perché la perfezione del pittore nel compitamente immitare consiste, onde se vogliamo conoscere quanto eccellente sia l'artefice, osserviamo quanto eccellentemente immiti; che da questa regola quasi da pietra di paragone si conoscerà molto bene quante e quali lodi s'abbiano d'accumulare nel pittore; e quindi avviene che, se cose immitate sono difficili a rappresentarsi, e se nondimeno al naturale si dipinghino, per l'ordinario si giudica che l'autore dell'opera sia molto eccellente. Per il che gl'intendenti reputano maravigliose le pitture di Raffaello, e quelle in particolare che si scorgono nelle stanze papali, e fra queste ergono con maravigliosi encomi alle stelle l'immagine di san Pietro nelle prigioni, poiché oltre il formarlo con tutte le immaginabili perfezioni richieste dall'arte, vi si scopre una luce, una distanza così difficilissima a dipingersi, così notabile, che ragionevolmente è degna d'infinita ammirazione; ed è riverito come un supremo termine dell'arte, il che si vede e forse non meno anche nel divotissimo quadro del Baroccio che godono li Padri Cappuccini, nel quale sono con tanta proprietà dipinti i celesti raggi amorosamente efficaci, e violenti impressori delle sagre stimmate, che vi si discerne il tutto così al naturale, che sembrano raggi veri e non dipinti. E quella forza e quelli affetti di carità, quell'efficacia, quello spirito che vi si conosce, siccome con difficoltà si rappresenta, così anche sono certissimi segni e giudici dell'eccellenza del pittore; la qual parte, la qual condizione in tutte le opere di Federico eminentemente si ammirano, poiché se descrive un cielo, sembra il cielo istesso in poca tela accolto; se una pianta, non si comprende che sia pittura; se una tigre, spaventa più l'imitazione che la fiera istessa; se un uomo, pare un uomo vivo. Sendosi egli dunque proposto, merceché conosceva se medesimo, un fine altissimo, ed avendo per costante che fra gl'aiuti quello della diligenza propria piucché gl'altri tutti opera e vale, fin dagl'anni più teneri rifiutando ogn'altro maestro, e ricoverandosi in casa del Genga suo parente e nostro concittadino, uomo insigne ed architetto allora del serenissimo Guid'Ubaldo di felice memoria, ebbe commodità di studiare e di copiare con somma diligenza alcune opere di Tiziano, le quali siccome furono d'utile grandissimo a Federico, così parimenti fecero più celebre il pittore. A tale scuola adunque assiduamente usando apparò tutte le particolarità dell'arte, e con questi fondamenti poté poscia innalzare un maraviglioso tempio di gloria inesplicabile all'eternità. Nondimeno aspirando a più alto segno, divenuto imitatore di Pitagora, di Platone e di Erodoto, che per apprendere le scienze felicemente in varie parti peregrinarono, dopo d'avere le più chiare città d'Italia vedute, sapendo che a Roma, oltre la copia d'illustri artefici viventi, v'abbondavano le opere d'uomini nella professione chiarissimi, deliberò di trasferirsi a quella nobil patria, nella quale dimorando per alcuni anni con pitture eccellentissime confermò la concetta espettazione, e divenne famosissimo. Ma che? Le cose del mondo sono di maniera alle mutazioni soggette, che solo nell'essere incostanti ritengono fermezza. Ecco questo uomo grande mentre con velocissimi passi correva al sommo della gloria da gravi accidenti scosso ed agitato in maniera che rimanendo stremo di sanità non solo non poté seguire l'intrapresa inchiesta, ma le convenne ritornare con poca speme di sopravvivere all'amata patria; il quale infortunio certamente per somma e divina Provvidenza le fu permesso, acciò da quello si facessero chiare le altre sue virtù, che non erano così ben note, ma rinchiuse nel centro dell'animo e del cuore furono da se medesimo solamente conosciute: quindi con la costanza e con la sofferenza lasciò memorabile esempio a noi mortali e con le opere n'insegnò che la fortuna ha qualche parte sopra le cose corporee ed esterne, ma non però si estende all'anima immortale, che ricca di se stessa e de propri fregi degnamente ornata, quasi nobilissima regina e vincitrice, preme ed opprime le maligne influenze di contraria sorte, le quali non solo a lei nocumento non apportano, ma bene spesso divengono mezzi efficaci e ministri certissimi della sua gloria. Ecco il Baroccio, che con tanto danno e privato e publico giace in letto e langue: eppure con fortezza inestimabile fece così nobil resistenza al colpo mortale, che compatito e compassionato da tutti pareva, che dimenticato di se stesso egli compatisse agl'altri, e che più l'affliggessero gl'altrui rammarichi che i propri danni, che i suoi dolori istessi; poiché non altrimente egli soffriva così grave e repentina percossa, e non altrimenti nelle miserie si portava, ch'altri fra mille felicità nel più bel corso delle terrene dolcezze dimostrato si sarebbe. Onde ben si conosceva in lui che le virtù nascevano dalla propria diligenza, siccome gl'affanni e le tribulazioni dalla malignità non so s'io debba dire della fortuna o degli uomini. Alla perfine dopo l'avere alcuni anni con somme lodi esercitata la pazienza, la fortezza e la costanza, fece divoto riccorso a Dio, che rimirandolo con occhio di pietà celeste prestò pietoso alegiamento al suo male; poiché ricuperò se non intieramente la salute, almeno in modo ch'egli poté compire tanti nobilissimi quadri, che per le più famose città d'Europa s'ammirano; e se rimase in lui qualche impedimento come restò sino alla fine della vita, restò cred'io perch'egli confessasse d'averlo per miracolo conseguita, perché seco avesse congiunta l'occasione di meritare, anzi acciò si rammentasse d'esser uomo; poiché send'egli di così chiare ed eminenti virtù fregiato, non era gran cosa che la memoria della fragilità nostra le fuggisse. Seguitò nondimeno con l'istesso fervore l'incominciato camino alla gloria, ed in breve si sparse delle virtù sue per tante belle opere così nobil fama, che per giudizio comune era giudicato superiore agl'antichi; e piacesse pure al cielo che le pitture di Zeusi, di Apelle, di Protagora e di Parasio si fossero vive negl'effetti, come nella memoria degl'uomini conservate, che so ben io quanto da sì degno paragone più si riverirebbe il Baroccio, della qual colpa abbiamo giustamente a fare tanto il tempo, quanto l'invidia, rei; poiché consumando e coprendo opre sì chiare hanno benché indirettamente oscurati i quadri di Federico, conciossiaché per se medesimo non tanto perfettamente si conoscono, quanto da questa comparazione si farebbero illustri. Onde siccome li più nobili artefici da bellissimo paraggio maravigliosi frutti riporterebbero, così anche la nostra patria Urbino con più sensibili dimostrazioni gioirebbe d'aver al mondo prodotti due figli a qualsivoglia degl'antichi superiori. Ma sebbene siamo di questa consolazione privi, dalle regole nondimeno dell'arte si scorge nelle opere sue così alta e così illustre immitazione, ch'elleno altro in verità non sono che nobilissimi tesori della pittura, che così veramente uniche e singolari, essendoche il Baroccio, come già fece Apelle, il quale da mille vedute e sparse bellezze formò quella maravigliosa Venere da mille forme di dipingere abbracciate da pittori eccellenti, trasse quelle perfezioni ch'erano in esse, dalle quali compose quella sua maniera tanto ammirata, e dai maggiori uomini del mondo seguita, in cui si comprendono i più reconditi segreti dell'arte, aggiungendovi il modo suo proprio di colorire, ch'oltre l'essere allegrissimo e pieno, è vivo e più durabile di qualsivoglia altro; onde ne futuri secolo saranno li quadri suoi più belli, poiché dal tempo superata ed affinata quella vivezza de colori, acquisteranno un essere, nel quale tutti appieno s'acqueteranno. Maraviglioso provvedimento in vero, poiché sapendo egli che le pitture non sono immortali, cercò di preservarle dalle ingiurie del tempo con un copioso e vivissimo colorito piucché possibil fosse, acciò le età seguenti fossero degne se non di vedere l'autore, almeno d'ammirare le chiarissime memorie delle sue virtù, dal quale onestissimo desiderio stimolato con tanta diligenza v'applicava il pensiero, che in questo tutti gl'artefici e passati e presenti si lasciò di lunghissimo spazio addietro. E quindi aveva origine la tardanza delle opere, perché sebbene egli con somma prestezza esercitava il suo talento, tuttavolta a nessun termine di perfezione contento stava; anzi timoroso che altri non desse menda alle sue meraviglie, bellezze a bellezze, artificio ad artificio aggiungendo, produceva finalmente allo splendore del mondo e della gloria le più nobil pitture che mai vedesse l'arte; del che seg
Archivist's notes
Coll. BUU, Archivio Storico del Comune, ms. Urbino 73;
Bibl. H. Olsen, Federico Barocci, Copenhagen 1962; H.P. Olsen, Relazioni tra Francesco Maria II Della Rovere e Federico Barocci, in I Della Rovere e l'Italia delle corti, 4 voll., 2. Luoghi e opere d'arte, a cura di B. Cleri, S. Eiche, Urbania 2002, pp. 195-204; L. Baroni, L'Orazione Funebre per Federico Barocci di Vittorio Venturelli da Urbino: trascrizione e note preliminari, in "Atti e Studi Accademia Raffaello", 1-2, 2015, pp. 61-90
Bibl. H. Olsen, Federico Barocci, Copenhagen 1962; H.P. Olsen, Relazioni tra Francesco Maria II Della Rovere e Federico Barocci, in I Della Rovere e l'Italia delle corti, 4 voll., 2. Luoghi e opere d'arte, a cura di B. Cleri, S. Eiche, Urbania 2002, pp. 195-204; L. Baroni, L'Orazione Funebre per Federico Barocci di Vittorio Venturelli da Urbino: trascrizione e note preliminari, in "Atti e Studi Accademia Raffaello", 1-2, 2015, pp. 61-90
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Claudiano
Eugenio IV
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Marcantonio Barocci
Giovan Battista Barocci
Giovanni Maria Barocci
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